Nelle Terre della nostra antica Madre.
La trovarono sulla riva di una palude, coperta da un soffice strato di fango, era quasi tutta intera, era bellissima.
La chiamarono “Dinqinesh”, che in lingua amarica vuol dire “tu sei meravigliosa”; è conosciuta da tutti come “Lucy”. Lei aveva attraversato il tempo.
È l’ antenato più antico della specie umana fino ad ora ritrovato, la nostra antica e infinita madre; sentì per prima il desiderio di conoscere la Terra che l’aveva accolta, di scoprirla, andando oltre l’orizzonte visibile: lei iniziò a camminare. Da quel momento ebbero lentamente inizio le epiche migrazioni dell’umanità.
Ho desiderato rendere omaggio a questa donna, al suo coraggio, alla sua curiosità realizzando un sogno: attraversare in bicicletta, da Sud a Nord, la depressione desertica della Dancalia etiopica, la Dancalia “pura”, la regione dell’Afar, un immenso mare scomparso tra Etiopia ed Eritrea, un deserto di sale, vulcani e polvere dentro la Rift Valley africana, tutta sotto il livello del mare. Qui il marasma degli elementi, l’anarchia geologica che si scatenano nel nucleo del pianeta, non si sono mai fermati e da millenni la trasformazione avviene alla luce del sole.
Terra tanto dura quanto straordinaria la Dancalia: eletta dal popolo Afar, nomadi dalle origini leggendarie, “gli uomini della lava”, come l’unica in cui poter vivere, terra di confine, legata al destino antico dell’umanità tutta, al passato e alla storia quasi dimenticati del nostro paese, ad ambizioni troppo grandi di possedere e colonizzare terre lontane.
In Dancalia la bellezza della Terra è predominante, la forza straordinaria del suo popolo senza paragoni; donne e uomini camminano, da sempre, senza sosta, con passo di instancabili marciatori, hanno adattato l’intera loro esistenza a questa terra invece di abbandonarla e maledirla perché poco generosa e continuano ad amarla, nonostante tutto, con “l’amore di serpi per la pietra”.
In questo mondo non e’ l’uomo di passaggio ad essere protagonista in prima fila di uno spettacolo…qui l’uomo che non ci vive scompare!
Solo per pochi mesi all’anno e’ possibile compiere questo percorso, quando le temperature non sono tanto elevate da rendere difficile, a volte impossibile, goderne la bellezza senza soffrire.
La bicicletta e’ diventata la mia casa per il tempo della traversata; tutto, a parte l’acqua, si muoveva insieme a me. In una jeep utilizzata per il trasporto della scorta, obbligatoria e assegnata a chiunque attraversi questo territorio, avevo caricato acqua potabile in taniche gialle, le stesse che si vedono in tutta l’Etiopia. Nei pozzi l’acqua era troppo fangosa e anche filtrandola non avrei avuto la sicurezza di poterla bere senza conseguenze.
Venite, vi porto in viaggio con me.
Parto da Asayta, la capitale del sultanato dell’Aussa, un tempo gloriosa oasi lungo l’antica via carovaniera che da Tadjoura, sul Mar Rosso, arrivava fino alle sponde del fiume Awash che rende ancora fertile e generosa la terra che attraversa prima di andare a morire nella depressione desertica della Dancalia, dove polvere e sabbia e sale hanno più forza dell’acqua. Di fronte ad un minareto verde smeraldo, come un faro che non ha mai sentito il rumore del mare, le donne Afar sono le signore bellissime, colorate e fiere del grande mercato settimanale; vendono stuoie di palma dum intrecciata, burro chiarificato giallo intenso, pelli di vacca seccate dal pelo lucido, uova dal guscio bianco come la neve.
Da Asayta la pista entra, infinita, in un immobile oceano di lava, in un mare che fu incandescente durante una serie ripetuta di sconvolgenti geologici e che lentamente si è raffreddato. A volte vedo l’infinito pedalando sulla cresta dell’onda, a volte vedo solo le gradazioni di nero e grigio del magma pietrificato.
Ad Afrera sapevano che sarei arrivata, mi aspettano fuori dall’ufficio governativo con i fogli dei permessi stretti in mano: con quelli posso continuare e andare sicura in tutta la regione dell’Afar.
Pedalo seguendo la catena quasi ininterrotta di vulcani che fanno di questo territorio un luogo unico al mondo; devo passare a Krswad, il quartier generale di Ghilissa prima di salire sul cratere dell’ Erta Ale, uno dei quattro vulcani attivi sulla Terra ad ospitare un lago di lava permanente dove le onde del magma fanno risacca come l’acqua del mare. Ghilissa e’ un capo, lui decide le scorte che accompagnano chiunque salga sulla “Montagna che fuma”. Tutti hanno bisogno di lui. Arrivare a Krswad in bicicletta non è semplice: tre grandi cisterne di plastica bianca indicano da lontano la sua posizione, come un faro per i naviganti, in questo deserto di polvere impalpabile che copre il mozzo delle ruote e rende impossibile avanzare in sella. Spingo la bicicletta per 30 chilometri, ad ogni passo si alza una nuvola che entra negli occhi, nel naso, nei pori della pelle, nella trama del tessuto dei vestiti e cambia il loro colore.
Nel piccolo regno di Ghilissa ci sono solo uomini, come un piccolo esercito alle dipendenze di un signore: tutti aspettano un suo cenno per capire se potranno lavorare. Non è mai giunto nessuno fino a qui pedalando una bicicletta, nessuno ha mai attraversato la Dancalia pura in sella; il mio arrivo destabilizza un poco l’atmosfera di questo villaggio surreale. Ricomincio a spingere fino a che l’immensa distesa di polvere lascia spazio a sassi e pietre di lava millenaria; le vibrazioni mettono a dura prova il portapacchi e il carico. Al campo base e’ ancora la mia bicicletta fa divertire i militari come immagino non capitasse da tanto tempo; la rivedo dopo ore dal mio arrivo.
La traccia sale dolce, l’Erta Ale e’ poco più di una collina, nonostante questo non riesco a pedalare, scendo e spingo fino alla caldera di questo vulcano così raro, un vulcano a scudo, di tipo hawaiano, in Africa, rimasto sconosciuto fino alla metà del 1900, temuto è venerato come una divinità dal popolo Afar.
Bolle incandescenti esplodono e creano onde di fuoco che si infrangono; questo lago e’ il sangue del pianeta che ci ospita, mosso dall’energia infinita che arriva direttamente dal profondo. Qui la crosta terrestre e’ ancora aperta ed io posso vedere cosa succede dentro. Incredibile anarchia di elementi, di materia, di forze in mutamento, in divenire, in trasformazione. Il vero senso della terra,qui, avvolge come un immenso abbraccio.
La discesa e’ divertente, pedalo su strati di lava millenaria, su colate dalle innumerevoli sfumature del nero e del grigio, un nastro piegato su se stesso come fosse un tessuto morbido rimasto pietrificato.
A Waededdo mi ospita una famiglia Afar; hanno deciso di fermarsi e di vivere stanziali, almeno fino a che nel pozzo ci sarà acqua per loro e per le bestie e le palme dum daranno foglie e fibre da lavorare e vendere e linfa da bere.
In vulcano Catherine e’ poco distante; lascio la bicicletta alla fine della pista per attraversare a piedi una distesa di lava appuntita e tagliente. Il lago di smeraldo all’interno del cratere sembra un grande occhio dallo sguardo sveglio. Vedo il Lago Bakhili e, lontana, l’immensa Piana del sale.
Seguendo la pista dei cercatori d’oro le vedo arrivare da nord: le carovane del sale, lente, inarrestabili, una lunga fila di animali e uomini che da tempo immemorabile, ogni giorno, senza sosta, spaccano la crosta di questo mare scomparso a 120 metri sotto il livello della terra per venderla sui mercati dell’altopiano, dopo tre giorni e 2000 metri di cammino più in su. La loro e’ storia antica di convivenza pacifica tra musulmani e cristiani, basata su un grande rispetto di abilità e competenze. Hanno bisogno, per vivere, gli uni degli altri. Qui c’è un equilibrio perfetto natura – uomo – economia.
Non c’è ancora luce e le carovane sono già in marcia da tempo; le seguo silenziosa pedalando al ritmo del loro incedere silenzioso. Un militare che da giorni si porta sulla schiena una stazione radio con un telefono e una lunga antenna, inforca la mia bicicletta ed inizia a pedalare, ridendo e urlando di gioia, immagino assaporandone l’immenso senso di libertà. Uno alla volta tutti gli estrattori e tagliatori di sale si fanno un giro…e’ una meraviglia la felicità dei loro volti giovani.
Continuo a pedalare verso Nord, oltre la Collina degli Spiriti, le ruote corrono veloci sul fondo di questo mare accecante, su uno strato di sale e rocce evaporitiche che entrano tremila metri nella profondità della terra; la collina di Dallol delinea dolcemente un orizzonte rimasto senza riferimenti verticali per tanto tempo. Dallol e’ un vulcano che, come impazzito, e’ esploso sotto terra; quello che si vede in superficie la testimonianza della sua potente e continua attività geotermica, della sua energia a lungo repressa. Da lontano mi ricorda la bellezza di Sana’a, la capitale dello Yemen, come immagino potessero vederla le carovane in viaggio verso Nord, lungo la via dell’incenso. Luogo surreale e fatato allo stesso tempo, dalla bellezza violenta e quasi eccessiva: concrezioni saline e cristalli di zolfo dalla fragilità assoluta, salgemma, argilla e gesso, vasche dalle forme fantastiche con acqua dai colori psichedelici in continua ebollizione: verde menta, giallo zafferano, viola melanzana, geyser grandi come uova di struzzo con il guscio finemente lavorato all’uncinetto sono testimonianza visibile, unica e straordinaria di cosa accade sotto i nostri piedi da milioni di anni. E poi guglie stratificate che hanno la forma delle cime più conosciute della terra.
Ahmed Ela e’ punto di arrivo e di partenza, è luogo di passaggio; e’ un miraggio cresciuto dove il fiume Saba va a morire inghiottito dalla polvere e dal sale. È l’ultimo villaggio della Piana, prima di entrare nel fiume, andando verso Ovest. Sorto poco più di vent’anni fa come presidio dei guerriglieri tigrini in lotta per la conquista della libertà contro il potere tirannico di Menghistu, e’ costruito con materiale di recupero attraverso il quale passano vento e polvere e sguardi, come se i pezzi fossero stati raccolti dopo una improvvisa piena del fiume. Solo la moschea e la scuola sono strutture in muratura. Nella stagione meno calda il villaggio ospita cinquecento lavoratori del sale con le loro famiglie. Tutto ad Ahmed Ela e’ del colore della polvere e delle sue sfumature. Una fila di bambini e ragazzini, tutti maschi, aspetta davanti alla capanna che mi ospita per la notte di poter fare un giro sulla bicicletta. Faccio salire i più piccoli, uno alla volta, sul ferro del telaio e pedalo con loro per il villaggio; a sorpresa, ad Ahmed Ela e’ arrivata una giostra! Ai più grandi lascio la bicicletta perché possano assaporarne il senso di liberta’, perché possano sentire l’aria calda accarezzare la loro pelle. La loro felicità nutre enormemente la mia.
Ad Ahmed Ela il paesaggio, verso Ovest, ha dei confini tremolanti: quella è la mia direzione. La leggenda vuole che la regina del popolo Sabeo nel lungo ed epico viaggio verso la corte di Re Salomone, abbia percorso, con la sua infinita carovana, il fiume Saba. Per due giorni cammino spingendo la bicicletta che trasporta il mio carico. Questa è la via che percorrono anche le carovane del sale, cariche di paglia, farina ed acqua quando scendono verso la piana, di lastre di candido sale quando salgono verso l’altopiano. Il profumo del caffè di Zhara, la caffettera Afar di Asso Bole, mi accompagna fino al mercato del villaggio di Berhale: qui finisce il viaggio delle carovane e anche il mio, in compagnia di una fedele e generosa amica, la mia bicicletta.
Avrò sempre luce anche nelle notti senza luna.
Non provate mai a spegnere un vulcano.
Caterina Borgato.