#CicloRacconti: La vegia e ‘l narvent

mercoledì, 21 Giugno, 2017

LA VÈGIA E ‘L NARVENT
di Matteo Forti

Questo non è un racconto di viaggio.
Sta già finendo una delle ultime giornate di luglio; Bad Gastein, all’ombra dei monti Tauri, Austria. Nuvole bagnate giocano con me come il gatto con il topo ormai da tre giorni.
C’è una bella salita per le vie del paese, su fino alla cascata e oltre, prima di raggiungere l’ostello che è la meta di oggi. Alla reception, appena arrivato anche lui, un altro italiano. La memoria fotografica è uno dei tanti talenti che non ho, ma qualcosa di lui me la ricordo: non alto, essenziale; asciutto, testa rasata, misurato in tutto. Non nervoso, nemmeno nerboruto; era narvent, che sembra una parola esotica e invece è dialetto e vuol dire: tutto nervi. La sua bici non l’ho vista, ma secondo me assomigliava al proprietario: leggera, carico ben distribuito, affidabile, affilata.
Ci salutiamo un po’ sbrigativamente, quasi imbarazzati per non aver molto da dirci, e ognuno va finalmente alla sua doccia, al suo riposo. Ci ritroviamo il giorno dopo, faccia a faccia, a dividere il tavolo per la colazione. Ora, prima di un’altra partenza, avevo voglia di qualche parola famigliare: gli italiani che pedalano a nord delle Alpi sono pochi e sembrano anche meno, diluiti in un mare di germanofoni su due ruote. Lui è cortese ma non si sbottona molto. Metodico, meticoloso, impiega lo stesso tempo che ho avuto bisogno io per vuotare il vassoio solo per sbucciare e affettare la sua frutta. Peserà la metà di me.
Vado fino a Grado, racconto io, perchè finora ‘sta cosa ha fatto abbastanza effetto alla gente a cui l’ho detto.
Io vado in Danimarca, dice lui per nulla impressionato, e a me va di traverso l’ultimo boccone.
Tossisco forte, ma ciò che mi scuote davvero è il pensiero di un viaggio tanto lungo, tanto più lungo del mio breve giretto. Finisce così: che passo buona parte della giornata tra la pioggia e l’asfalto a rimuginare, a pensare a quel ciclista riservato, a fantasticare sul suo viaggio, a immaginare il suo pedalare regolare e silenzioso, tra la Repubblica Ceca, Berlino e il Mare del Nord, mentre io vado giù verso un più modesto Adriatico.
Chissà se lo ha capito? Che andando così lontano, anche solo incrociandomi di striscio e concedendomi così poche sillabe, ha spostato avanti e più in alto la mia asticella e mi ha gettato, senza avere l’intenzione, un’esca nuova.
Quattro giorni dopo, da qualche parte in mezzo ai campi e alle sorgive, tra Palmanova e Aquileia. Mi scaldo le ossa al sole, finalmente.
Uscendo da un paese che non ricordo sorpasso un’anziana signora ondeggiante su un’anziana bicicletta. Faccio un cenno di saluto e tiro dritto, ma quando poi mi raggiunge, un po’ più avanti, fermo a ripiegare la cartina, decide unilateralmente che è ora di fare una chiacchierata e attacca a parlare. E mi complica la giornata: perchè parla della bellezza di questa pista così facile da percorrere, dell’asfalto nuovo, degli incontri fatti durante il viaggio. Dimentico per un attimo la carta che insiste a non voler essere ripiegata e riconsidero la signora. Non è anziana: è proprio vecchia, anzi vègia, perchè in dialetto suona meglio e non ha più nulla di offensivo. Robusta (anche qualcosa in più); capelli canuti e scomposti; vestito lungo a fiori, uniforme standard di tutte le nonne del mondo; occhialoni spessi. La bici è meglio di come mi era sembrata: robusta (e anche qualcosa in più pure lei), non proprio da turismo, diciamo così, ma nemmeno troppo malandata anche se cigola forte. Porta borse di cuoio spesso, un po’ grezze, appese al manubrio e al portapacchi, troppo generose per essere adibite solo al trasporto spesa. Forse non sta tornando dal mercato.
Stabilisco dunque che vale la pena indagare e, ancora una volta, rimango impressionato. Sì, anche lei sta viaggiando, sì, anche lei fa mia stessa strada, almeno un pezzetto, verso il mare. Ci arriverà dopodomani o il giorno dopo (io entro sera), ma ci arriverà. Torna a vedere i posti in cui è cresciuta, ché è da tanto che non ci veniva più; viaggia sola, pian piano, una manciata di chilometri al giorno sono sufficienti. E’ così bello qui.
Alla fine la saluto di nuovo, ma con più calore. Allontanandomi da lei, ancora una volta mi sentivo superato, sorpassato, da quest’altro personaggio che la via mi aveva offerto di incontrare: la solida vecchia con la sua vecchia bicicletta, entrambe sorte in quel tempo duro in cui le cose erano fatte per durare. Eccola là, la vedo ancora che nella pianura assolata si beve il bel panorama a grandi sorsi, a grandi sguardi, e con saggia lentezza e invidiabile coraggio sfida il buon senso e la vecchiaia a colpi di pedale, sulle strade della sua giovinezza.
Questo non è un racconto di viaggio, ve l’avevo detto, ma di viaggiatori sì.
Perchè le lunghe ore appollaiati soli sulla sella insegnano: il pezzo più pregiato di ogni bicicletta che incontri è quell’impasto sudato di carne e respiro che ci sta in cima.

LA VÈGIA E 'L NARVENT
di Matteo Forti

Questo non è un racconto di viaggio.
Sta già finendo una delle ultime giornate di luglio; Bad Gastein, all'ombra dei monti Tauri, Austria. Nuvole bagnate giocano con me come il gatto con il topo ormai da tre giorni.
C'è una bella salita per le vie del paese, su fino alla cascata e oltre, prima di raggiungere l'ostello che è la meta di oggi. Alla reception, appena arrivato anche lui, un altro italiano. La memoria fotografica è uno dei tanti talenti che non ho, ma qualcosa di lui me la ricordo: non alto, essenziale; asciutto, testa rasata, misurato in tutto. Non nervoso, nemmeno nerboruto; era narvent, che sembra una parola esotica e invece è dialetto e vuol dire: tutto nervi. La sua bici non l'ho vista, ma secondo me assomigliava al proprietario: leggera, carico ben distribuito, affidabile, affilata.
Ci salutiamo un po' sbrigativamente, quasi imbarazzati per non aver molto da dirci, e ognuno va finalmente alla sua doccia, al suo riposo. Ci ritroviamo il giorno dopo, faccia a faccia, a dividere il tavolo per la colazione. Ora, prima di un'altra partenza, avevo voglia di qualche parola famigliare: gli italiani che pedalano a nord delle Alpi sono pochi e sembrano anche meno, diluiti in un mare di germanofoni su due ruote. Lui è cortese ma non si sbottona molto. Metodico, meticoloso, impiega lo stesso tempo che ho avuto bisogno io per vuotare il vassoio solo per sbucciare e affettare la sua frutta. Peserà la metà di me.
Vado fino a Grado, racconto io, perchè finora 'sta cosa ha fatto abbastanza effetto alla gente a cui l'ho detto.
Io vado in Danimarca, dice lui per nulla impressionato, e a me va di traverso l'ultimo boccone.
Tossisco forte, ma ciò che mi scuote davvero è il pensiero di un viaggio tanto lungo, tanto più lungo del mio breve giretto. Finisce così: che passo buona parte della giornata tra la pioggia e l'asfalto a rimuginare, a pensare a quel ciclista riservato, a fantasticare sul suo viaggio, a immaginare il suo pedalare regolare e silenzioso, tra la Repubblica Ceca, Berlino e il Mare del Nord, mentre io vado giù verso un più modesto Adriatico.
Chissà se lo ha capito? Che andando così lontano, anche solo incrociandomi di striscio e concedendomi così poche sillabe, ha spostato avanti e più in alto la mia asticella e mi ha gettato, senza avere l'intenzione, un'esca nuova.
Quattro giorni dopo, da qualche parte in mezzo ai campi e alle sorgive, tra Palmanova e Aquileia. Mi scaldo le ossa al sole, finalmente.
Uscendo da un paese che non ricordo sorpasso un'anziana signora ondeggiante su un'anziana bicicletta. Faccio un cenno di saluto e tiro dritto, ma quando poi mi raggiunge, un po' più avanti, fermo a ripiegare la cartina, decide unilateralmente che è ora di fare una chiacchierata e attacca a parlare. E mi complica la giornata: perchè parla della bellezza di questa pista così facile da percorrere, dell'asfalto nuovo, degli incontri fatti durante il viaggio. Dimentico per un attimo la carta che insiste a non voler essere ripiegata e riconsidero la signora. Non è anziana: è proprio vecchia, anzi vègia, perchè in dialetto suona meglio e non ha più nulla di offensivo. Robusta (anche qualcosa in più); capelli canuti e scomposti; vestito lungo a fiori, uniforme standard di tutte le nonne del mondo; occhialoni spessi. La bici è meglio di come mi era sembrata: robusta (e anche qualcosa in più pure lei), non proprio da turismo, diciamo così, ma nemmeno troppo malandata anche se cigola forte. Porta borse di cuoio spesso, un po' grezze, appese al manubrio e al portapacchi, troppo generose per essere adibite solo al trasporto spesa. Forse non sta tornando dal mercato.
Stabilisco dunque che vale la pena indagare e, ancora una volta, rimango impressionato. Sì, anche lei sta viaggiando, sì, anche lei fa mia stessa strada, almeno un pezzetto, verso il mare. Ci arriverà dopodomani o il giorno dopo (io entro sera), ma ci arriverà. Torna a vedere i posti in cui è cresciuta, ché è da tanto che non ci veniva più; viaggia sola, pian piano, una manciata di chilometri al giorno sono sufficienti. E' così bello qui.
Alla fine la saluto di nuovo, ma con più calore. Allontanandomi da lei, ancora una volta mi sentivo superato, sorpassato, da quest'altro personaggio che la via mi aveva offerto di incontrare: la solida vecchia con la sua vecchia bicicletta, entrambe sorte in quel tempo duro in cui le cose erano fatte per durare. Eccola là, la vedo ancora che nella pianura assolata si beve il bel panorama a grandi sorsi, a grandi sguardi, e con saggia lentezza e invidiabile coraggio sfida il buon senso e la vecchiaia a colpi di pedale, sulle strade della sua giovinezza.
Questo non è un racconto di viaggio, ve l'avevo detto, ma di viaggiatori sì.
Perchè le lunghe ore appollaiati soli sulla sella insegnano: il pezzo più pregiato di ogni bicicletta che incontri è quell'impasto sudato di carne e respiro che ci sta in cima.